WiseSociety – Luca Abete: “Troppo spesso gli adulti giudicano i giovani senza conoscerli veramente”

WiseSociety – Luca Abete: “Troppo spesso gli adulti giudicano i giovani senza conoscerli veramente”

Con uno dei volti più amati di “Striscia la Notizia”, impegnato nel tour #NonCiFermaNessuno, che coinvolge i giovani universitari di tutta Italia, abbiamo parlato proprio delle nuove generazioni e di quello che desiderano nel profondo…

È uno dei volti più noti e amati di Striscia la Notizia, impegnato non solo sul piccolo schermo, ma molto anche nel sociale, in particolare verso i giovani, che da dieci anni incontra in giro per l’Italia coinvolgendo, tramite talk e svariate attività, le università di tutto lo Stivale. Luca Abete è stato, infatti, l’ideatore del tour motivazionale legato alla campagna sociale #NonCiFermaNessuno, che quest’anno, attraverso 10 tappe in altrettante università, ha avuto come slogan “Impariamo ad amarci”, per parlare di amore per sé stessi e per gli altri, di fragilità e di resilienza.

Un tour di 10 tappe che si è appena concluso e che ha coinvolto oltre 3.000 studenti presenti in aula e 200 ragazzi protagonisti dei talk, trasformandosi in una bella occasione per un confronto senza filtri sul momento (molto particolare) che vive un’intera generazione. Incontri di cui lo stesso Abete è stato animatore insieme con altri volti noti quali Enzo Iacchetti, Giuliano Sangiorgi, Enrico Brignano, Lodo Guenzi, Beatrice Fraschini, Gianluca Zambrotta, Giovanni Muciaccia, Ciccio Graziani e Fabio Caressa.

Un format coinvolgente e di successo che si è guadagnato, fra i vari riconoscimenti ottenuti negli anni, anche la Medaglia del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella e incontri importanti, come quello, per esempio, con il Santo Padre.

Con Luca Abete abbiamo parlato, dunque, di giovani, di come sono cambiati negli ultimi anni, di quello che cercano nella vita e di cosa chiedono al mondo degli adulti, dei loro valori, dei loro sogni e delle loro priorità

Luca Abete

Luca Abete è ideatore e animatore del tour motivazionale universitario #NonCiFermaNessuno.

Che cos’è la campagna sociale #NonCiFermaNessuno?

Il nostro obiettivo è mostrare anche l’altra faccia della realtà, che naturalmente è fatta di successi, di studio, di impegno, di esami da superare e voti da ottenere. Ma è anche un’occasione per rivedere il proprio stile di vita, il proprio modo di agire e di affrontare le sfide che la vita accademica, professionale, lavorativa e personale ci pongono.

È stato un vero viaggio all’interno delle esperienze dei giovani studenti, in quelle che avevano voglia di raccontare e in quelle che nemmeno immaginavano di poter ascoltare. In loro ho rivisto un po’ il ragazzo che ero, e ho cercato semplicemente di creare un contesto dove poter ritrovare energie, risposte e occasioni per sentirsi meno soli.

Nei talk che portiamo nelle università da dieci anni, non c’è alcuna lezione di vita, né un manuale con le regole giuste per vincere. C’è, invece, un’opportunità di scambio che arricchisce, annienta un po’ le paure e fa sentire tutti più forti.

Un bilancio di questo primo decennio di attività?

È stato sicuramente un decennio significativo, ricco di cambiamenti e di novità, come è naturale che sia, soprattutto se penso all’aspetto tecnologico. Quando abbiamo iniziato, ad esempio, non esistevano alcuni social network come TikTok, e altri che c’erano allora oggi non esistono più. Se ripenso a quanto fosse insolito per le università ricevere un invito da parte di Luca Abete, non tanto per un’intervista di Striscia la Notizia, ma per portare questo format all’interno delle università, all’inizio: è davvero incredibile vedere come si siano evolute le cose.

Poi è arrivata la medaglia, il Presidente della RepubblicaPapa Francesco, che ha voluto incontrare gli studenti, o meglio, i ragazzi del Servizio Civile provenienti da tutta Italia: 7.000 giovani. All’inizio, tutto questo sembrava davvero impensabile. Oggi, invece, c’è una grande collaborazione con le università, con i patrocini del Ministero della Ricerca e dell’Università, della CRUI e della Conferenza dei Rettori. Insomma, è stato un vero e proprio “cavallo di Troia” che ha aperto un mondo che, all’inizio, sembrava impossibile da immaginare. Chi ci contrastava all’inizio lo faceva semplicemente perché non ne aveva mai sentito parlare e non ne capiva l’utilità.

I ragazzi sono cambiati moltissimo. All’inizio, quando ci incontravamo, parlavano di post-laurea, di progetti lavorativi. Cercavano di essere brillanti anche nei nostri incontri. Poi è arrivata la pandemia, che ha messo tutto in discussione, e dopo la pandemia abbiamo visto un cambiamento importante. Oggi i ragazzi pensano al futuro, ma prima di ogni cosa mettono al centro il presente, il loro stato di salute fisica e mentale, e il loro ruolo all’interno della società.

 

 

Focus del progetto sono l’amore per sé stessi e per gli altri, la fragilità e la resilienza. Cosa ha trovato in giro, incontrando le persone, su questi temi?

Ogni anno cerchiamo di stimolare e creare un pretesto per il dibattito e la discussione, partendo da un claim che nasce proprio dall’ascolto delle sensibilità che emergono in aula. Il claim di quest’anno, “Impariamo ad amarci”, ha avuto un enorme successo, attirando una grandissima attenzione e suscitando molta curiosità non solo tra i ragazzi, ma anche tra i media e le stesse università. Questo claim ha permesso di creare un ampio ventaglio di azioni contemporanee che spaziano dall’amore verso sé stessi all’amore per le persone che abbiamo intorno, inteso sia come amore per la famiglia che come amore per la coppia e le relazioni amorose, fino ad arrivare all’amore per la natura e per le persone che non conosciamo, a cui possiamo dedicare un pensiero o un’attività di volontariato.

Impariamo ad amarci è stato quindi un grande successo, una scommessa vinta, capace di far emergere un importante scambio tra i ragazzi. Molto spesso i ragazzi cercano conferme e apprezzamenti negli altri, ma il primo passo, che spesso dimentichiamo, è imparare a voler bene a noi stessi, a cominciare ad amare noi stessi.

Quindi, “Impariamo ad amarci” è stato un punto di partenza fondamentale, un’opportunità di crescita che ha portato anche a una maturazione delle consapevolezze, che alla fine sono essenziali. Il tema della consapevolezza, infatti, è tornato ciclicamente in tutti i dieci talk che abbiamo tenuto in dieci università italiane, come un punto di partenza per imparare a volersi più bene, ma anche per sentirsi più sicuri, trovando quelle certezze fondamentali per superare gli ostacoli della vita.

I ragazzi di oggi si amano abbastanza?

Se i ragazzi si amano abbastanza? È difficile rispondere, perché il campione che incontriamo è davvero variegato. Ci sono ragazzi che hanno una marcia in più, che affrontano la vita con determinazione, come se avessero davvero capito come vivere alcuni passaggi fondamentali per la loro crescita. Poi ci sono quelli che restano indietro, che arrancano, che vivono nel dubbio e nella paura, spesso paralizzati dal timore di sbagliare. Alcuni non fanno nemmeno un passo avanti per paura del giudizio degli altri. Si tratta di una fragilità che, se non affrontata, rischia di diventare cronica: più non si fa, più questa fragilità cresce e diventa preponderante. E quando la fragilità prende il sopravvento, diventa difficile affrontare anche le piccole cose della vita.

Ci sarebbe bisogno di uno scambio maggiore, sia tra i ragazzi stessi che tra i ragazzi e gli adulti. Dico spesso che gli adulti giudicano senza conoscere veramente la realtà giovanile, senza averli mai davvero ascoltati. Ma, allo stesso tempo, credo che i ragazzi dovrebbero superare alcune reticenze e pregiudizi, e imparare a fidarsi di più degli adulti. Probabilmente, questo meccanismo di accorciare le distanze, che sperimentiamo ormai da dieci anni, potrebbe essere una chiave di lettura importante per migliorare la società e il mondo che ci circonda.

Prima accennava alla pandemia: le solitudini, i problemi giovanili, anche psicologici, sono aumentati così tanto come sembra?

Sì, credo che questa sia una percezione vera, ma allo stesso tempo un po’ errata, perché penso che non si tratti tanto di un aumento dei problemi, quanto piuttosto di un cambiamento nel modo di pensare alla vita e a sé stessi. La pandemia è stata un trauma per molti ragazzi, che si sono trovati a vivere una realtà scioccante. Anche gli adulti hanno vissuto un trauma, ma molti di loro avevano già delle basi solide su cui appoggiarsi in un momento di difficoltà. Per i giovani, però, l’incertezza è stata amplificata da una situazione che ha toccato profondamente la loro quotidianità.

Non è facile dire se ci siano state conseguenze durature sui ragazzi di oggi, ma sicuramente i giovani di oggi hanno imparato a concentrarsi di più sul presente, su ciò che vivono ogni giorno e su ciò che hanno intorno. In un certo senso, sono meno impegnati nel pensare al lungo termine e cercano nell’immediato gratificazioni o risposte. Questo approccio ha dei vantaggi, ma anche degli svantaggi. Da un lato, preoccuparsi della propria vita, di ciò che si sta facendo e di ciò che si vive, può rendere una persona più sensibile e meno incline a cadere nel meccanismo del “soldatino”, cioè del giovane che deve terminare gli studi ad ogni costo per fare felici i genitori. Dall’altro lato, la mancanza di progettualità e la ricerca di soluzioni immediate possono creare dei “boomerang” che, alla fine, colpiscono chi ha meno certezze e meno solidità su cui costruire il proprio percorso.

Luca Abete con dei ragazzi

Luca Abete con alcuni ragazzi incontrati durante il tour che ha attraversato l’Italia.

Spesso i giovani vengono descritti come avulsi dalla realtà, chiusi nel loro mondo virtuale e dei social, forse incapaci di “sentire” veramente il mondo… È davvero così?

Credo che i social siano ormai un punto di riferimento sia per i giovani che per gli adulti, anche se, ovviamente, cambiano gli ambiti di utilizzo e i modi in cui vengono impiegati. Tuttavia, anche molti adulti sono diventati ormai dipendenti dai social. Quando parlo di adulti, mi riferisco anche a mamme, papà e coppie trentenni che magari, per intrattenere i propri figli, non sanno fare altro che dar loro un tablet per tenerli tranquilli. È evidente che ci sono molti casi diversi e differenti fasi di sviluppo.

Noi, però, ci confrontiamo con una realtà che, sotto certi aspetti, è un po’ privilegiata: lo studente universitario, infatti, dedica tanto tempo allo studio e passa ore sui libri. Di conseguenza, vive i social network come uno svago, uno strumento non particolarmente invasivo. Questo non accade, però, per le generazioni più giovani, per le quali la vita virtuale può distorcere la percezione della realtà. In aggiunta, vi è anche una proliferazione di esempi negativi e di personaggi, concetti e contesti che non possiamo certo definire educativi.

Mi preoccuperei soprattutto degli adulti, che hanno perso un po’ il loro ruolo di guida e di indirizzo. Quando, ad esempio, ti ritrovi a Sanremo con cantanti che scrivono testi discutibili e che adottano atteggiamenti che poco hanno a che fare con la legalità, allora capisci che probabilmente gli adulti stanno sbagliando qualcosa. La ricerca dei numeri e dei contesti social “proficui” porta addirittura a normalizzare comportamenti che, in realtà, non dovrebbero esserlo.

I giovani di oggi secondo lei di cosa hanno più bisogno? Quali le loro priorità, cosa chiedono?

I ragazzi chiedono comprensione, chiedono ascolto, ma purtroppo, a volte, ho notato che chiedono anche semplificazione, strade facili. Molti di loro sanno cosa vuol dire sacrificio, impegno costante, e cosa significa affrontare la sconfitta, maturando da essa un passo importante per andare oltre. Altri, però, cercano la scorciatoia. Ho sentito ragazzi lamentarsi per esami troppo difficili e per la mancanza di sensibilità da parte dei professori che li bocciano. E così il nostro dibattito è diventato sempre più acceso, perché non è facile far capire quanto sia importante, talvolta, accettare una bocciatura o decidere di abbandonare l’università se non ci si sente portati.

Accettare che forse è necessario rimboccarsi le maniche, capire che qualcosa è stato sbagliato – che il metodo di studio o l’approccio all’esame non sono stati efficaci – è una delle sfide più difficili da comunicare. Credo che questa sia una delle problematiche più preoccupanti. I ragazzi chiedono anche maggiore unità, ma sono afflitti da una sensazione di solitudine che, spesso, non è nemmeno reale, ma solo percepita. Tuttavia, si rendono conto di quanto sia diversa questa sensazione quando ascoltano le storie degli altri durante i nostri talk e si accorgono che non sono soli, che ci sono altre persone con cui si possono identificare.

A livello valoriale li trova molto diversi rispetto alle generazioni precedenti? Quali sono i valori che ritengono più importanti?

I ragazzi vogliono divertirsi, vogliono esplorare, vogliono fare esperienze che, in parte, cose insomma simili a quelle che piacevano anche a noi. Tuttavia, è difficile fare un parallelo, perché la gamma di opportunità, di svago e di possibilità di sviluppare il proprio tempo è ben diversa da quella che avevamo noi alla loro età. È praticamente impossibile immaginare me stesso alla loro età, immerso in un mondo con tutti questi social network e con tanti elementi che invadono la nostra giornata e le nostre ore. È un cambiamento che lascia spazio a tante riflessioni. Quindi, è complicato fare un confronto tra generazioni, proprio come lo era con le generazioni precedenti alla nostra.

Credo che i valori siano più o meno sempre gli stessi, ma si manifestano in contesti diversi, con strumenti diversi e, soprattutto, con una pressione maggiore che si riflette sulle vite dei ragazzi. Questa pressione, a lungo andare, crea nuove fragilità che, col tempo, diventano sempre più invasive nella vita dei giovani.

Luca Abete

Il claim del tour di quest’anno è stato “Impariamo ad amarci” e ha coinvolto 10 università italiane.

Che consigli si sente di dare ai genitori, alla scuola, a tutte quelle agenzie di socializzazione che in qualche modo dovrebbero ascoltare, sostenere, guidare i giovani?

I ragazzi non vengono ascoltati abbastanza, e bisogna ammettere che spesso non sono nemmeno molto bravi a farsi ascoltare. A volte sentiamo le loro proteste, che finiscono per diventare nulla di più di una manifestazione estrema di disagio, qualcosa che non va. Bisognerebbe trovare un modo per accorciare le distanze, per fare in modo che adulti e ragazzi possano incontrarsi e parlare di ciò che li accomuna. Io dico sempre che siamo un po’ figli della stessa paura.

Ovviamente, la paura ha effetti diversi su ciascuno di noi, su diverse categorie e fasce d’età, ma alla fine si tratta di una guerra quotidiana contro la paura. E dico sempre ai ragazzi di non temere, perché anche gli adulti hanno paura. Anche un anziano di 85 o 90 anni ha paura del futuro. Per questo, è fondamentale accorciare le distanze, ritrovarci più vicini e darci ascolto reciprocamente.

E al governo, invece, cosa potremmo consigliare? Considerando che purtroppo ancora moltissimi giovani sono costretti a lasciare il Paese alla volta di nazioni che li considerano maggiormente e che gli offrono di più, sotto il profilo lavorativo ed economico e non solo…

Purtroppo, dover abbandonare il proprio Paese è uno degli incubi che colpisce tantissimi ragazzi che abbiamo incontrato durante i nostri giri nelle università, soprattutto quelli delle piccole realtà del Sud. Vivono con angoscia questa prospettiva, che sembra un vicolo cieco, una scelta obbligata. Quando andiamo a Campobasso, Messina, Potenza, i ragazzi affrontano il loro percorso di studi consapevoli che, molto probabilmente, dovranno cercare altrove le opportunità per il loro futuro.

I nostri politici sembrano essere completamente distaccati dalle reali esigenze dei cittadini, in particolare dei giovani. Se oggi ci concentriamo solo sulla propaganda e sullo scontro diretto, spesso anche poco educativo, ci accorgiamo che non esiste un politico capace di unire i nostri giovani o, quantomeno, di dare loro fiducia in un futuro. Questo basta a farci capire in che situazione ci troviamo. I ragazzi non hanno fiducia nel proprio governo, né nelle persone che amministrano il Paese. Per molti, questo rappresenta un’ulteriore discontinuità nel loro impegno verso la costruzione del futuro.

Sappiamo bene che i ragazzi non vanno più a votare. Molti di loro, infatti, non partecipano più alle elezioni, e sappiamo anche che quando si tratta di assumersi una porzione di responsabilità politica, molti non sanno nemmeno cosa stia succedendo nel nostro Paese. Il disinteresse verso tutto questo è la conferma che non si sta lavorando bene. Da questo punto di vista, chiedo spesso ai nostri governanti, a tutti i livelli, di passare dalle parole ai fatti, di lavorare concretamente, non teoricamente.

Se pensiamo che negli ultimi anni l’età media dei nostri politici è notevolmente scesa, ci rendiamo conto che, quando ero bambino, chi governava o ricopriva ruoli di prestigio in Parlamento o al Senato aveva i capelli bianchi. Oggi, ci ritroviamo con tanti politici giovani, ma, paradossalmente, con un colpevole disinteresse verso le fasce giovanili e il loro futuro.

 

Fonte: https://wisesociety.it/incontri/luca-abete-non-ci-ferma-nessuno-noi-adulti-dobbiamo-giudicare-meno-i-giovani/

 

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